Partito di Alternativa Comunista

La democrazia senza centralismo non c'entra col bolscevismo

La democrazia senza centralismo non c'entra col bolscevismo

 

 

 

di Francesco Ricci

 

La storia del movimento operaio rivoluzionario fin dai giorni della Prima Internazionale è una cronaca ininterrotta di tentativi, da parte di gruppi e tendenze piccolo-borghesi di ogni tipo, di compensare le loro debolezze teoriche e politiche con attacchi furiosi contro i «metodi organizzativi» dei marxisti. E sotto l'espressione «metodi organizzativi» essi hanno sempre incluso tutto: dal concetto di centralismo rivoluzionario fino alle questioni di routine organizzativa; e anche, oltre a questo, questioni personali e i metodi dei loro principali rivali, che vengono descritti immancabilmente come «bruti», «duri», «tirannici» e, ovviamente, «burocratici». Ancora oggi, qualsiasi gruppetto anarchico vi spiegherà come l'«autoritario» Marx maltrattò Bakunin.

(James Cannon, La lotta per il partito proletario, 1940)

 

Sul blog brasiliano Convergencia http://blogconvergencia.org sono stati pubblicati nell'ultimo anno molti articoli sul tema del regime nei partiti rivoluzionari, cioè sul centralismo democratico. Ho contato almeno nove articoli, ma può essere che me ne sia sfuggito qualcuno (1). Qui voglio riferirmi alla serie di quattro articoli di Enio Bucchioni e più in generale al tema del centralismo democratico.
Gli articoli di Enio Bucchioni sono molto interessanti perché propongono una ampia ricostruzione storica di come il tema del regime del partito fu affrontato dai bolscevichi e, dopo la morte di Lenin, da Trotsky. Il difetto che vedo nell'impostazione di Bucchioni è quello di enfatizzare (forse involontariamente) uno dei due termini del binomio (la democrazia) a scapito dell'altro (il centralismo), non comprendendo che il centralismo democratico non è la somma di due elementi distinti ma un tutto indivisibile. E in questo modo si perde di vista lo scopo del centralismo democratico: far funzionare un partito rivoluzionario, strumento di lotta per la conquista del potere. Mettendo sotto la lente di ingrandimento singoli passaggi della storia, estratti dal loro contesto, gli articoli di Bucchioni ci forniscono - a mio giudizio - una visione leggermente deformata della concezione bolscevica, per cui il binomio centralismo-democrazia si scioglie e rimane solo una democrazia senza centralismo, senza disciplina.
Non potendo, per ragioni di spazio, entrare in ogni dettaglio di questo importante dibattito, mi limito a sottoporre al lettore quattro osservazioni su alcuni aspetti del problema.

 

  1. Bisogna avere cautela nell'utilizzare Broué come fonte

Bucchioni (ma anche gli altri compagni che hanno scritto gli articoli che abbiamo citato) fa continuamente riferimento a Pierre Broué, e in particolare alla sua Storia del Partito bolscevico.
Indubbiamente Broué è stato un grandissimo storico marxista e i suoi libri vanno consigliati a ogni militante che voglia studiare la storia del bolscevismo e del trotskismo ripulita dalle falsificazioni staliniste. Tuttavia Broué, come ogni storico, inevitabilmente sceglieva temi e argomentava a partire dalla sua concezione, che era retta da due pilastri: primo, da una preferenza per il «giovane» Trotsky, non bolscevico e critico del presunto «ultracentralismo» leniniano (un Trotsky che lo stesso Trotsky maturo criticò implacabilmente); secondo, da una incomprensione del Trotsky costruttore della Quarta Internazionale. Non è casuale che alla costruzione della Quarta Internazionale, cioè a quello che Trotsky riteneva essere stato il compito più importante della sua vita (persino più della direzione della rivoluzione russa insieme a Lenin), Broué significativamente dedica solo una dozzina di pagine nella sua (peraltro ottima) biografia di Trotsky, che di pagine ne ha quasi mille.
Dunque è bene studiare Broué, ma nel fondarsi sui suoi giudizi storici conviene sempre ricordare che sono inevitabilmente intrecciati ai suoi (spesso sbagliati) giudizi politici.

 

  1. Bisogna prestare maggiore attenzione ai fatti storici

Volendo discutere del tema del regime, partendo (giustamente) dall'esperienza storica, è opportuno basarsi su una esatta ricostruzione dei fatti. Questo significa sia evitare alcuni luoghi comuni che purtroppo anche la storiografia anti-stalinista ha diffuso; sia evitare di andare a memoria, citando testi che magari si sono letti molti anni prima e che si ricordano male.Nel testo di Bucchioni ho trovato parecchi di questi luoghi comuni e anche alcune importanti sviste nella ricostruzione storica. Mi limito a citare tre affermazioni non vere o parzialmente non vere (quindi che risultano false, al di là delle buone intenzioni dell'autore). Bucchioni afferma:
- in primo luogo, che «(...) pochi sanno o si ricordano che, prima del 1918, tutte le correnti marxiste esistenti nell'antica Russia erano nel Posd-r. (...) Esisteva, dunque, un solo partito. A rigore, non esisteva il Partito bolscevico fino ad alcuni mesi dopo la rivoluzione del 1917, c'era invece la frazione bolscevica del Posd-r. È solamente nel marzo 1918 che fu fondato il Partito Comunista russo (bolscevico)»;
- in secondo luogo, che Lenin era convinto che «le differenze (...) rafforzano il partito»;
- in terzo luogo, che il centralismo democratico sarebbe stato creato da Lenin e che le «linee guida sono definite nel libro Che fare?, del 1902».
In realtà la prima e la seconda affermazione sono delle mezze verità e dunque, come ogni verità dimezzata, si accompagnano con una metà che non è vera e la terza affermazione semplicemente non corrisponde ai fatti storici. Purtroppo è in questo modo che Bucchioni finisce involontariamente per dipingere un quadro deformato del dibattito storico che potrebbe prestarsi a generalizzazioni sbagliate che altri potrebbero fare.
Ma andiamo con ordine e vediamo queste tre affermazioni.

 

In primo luogo. Bucchioni fa un po' di confusione quando ricostruisce la storia del bolscevismo. È vero che formalmente il Partito bolscevico nacque solo dopo la rivoluzione d'Ottobre ed è vero che prima esisteva il Partito Operaio Socialdemocratico Russo con le sue diverse frazioni e tendenze.  È vero anche (aggiungo io) che dopo la prima scissione del 1903 ci furono periodi di parziale unità tra bolscevichi e menscevichi. È bene precisare però, come fa Edward H. Carr, uno dei migliori storici della rivoluzione russa, che mentre molti erano convinti che la rivoluzione del 1905 avesse eliminato la demarcazione tra le diverse frazioni, «Lenin non lo credeva. Se egli considerò assolutamente inevitabile la riunificazione a causa della richiesta che veniva dalle masse (...) tuttavia si dichiarò a suo favore molto a malincuore e non la prese sul serio» (2).
E infatti l'unità durò molto poco e fu solo formale, continuando di fatto ad esistere due partiti separati con proprie strutture finché la divisione fu nuovamente sancita nel 1912. Ma nemmeno dopo il 1912 la separazione è completa e in alcune situazioni menscevichi e bolscevichi funzionavano congiuntamente. Addirittura nel 1917 la direzione bolscevica (prima del rientro di Lenin) proponeva una riunificazione coi menscevichi come logica conseguenza della posizione semi-menscevica di Kamenev e Stalin che volevano sostenere «criticamente» il governo di menscevichi e Sr. Per questo Lenin fu costretto a inviare messaggi perentori alla direzione bolscevica contro la riunificazione coi menscevichi.
Non ricordando questi fatti storici, l'affermazione di Bucchioni secondo cui fino al 1918 «Esisteva, dunque, un solo partito» (cioè il Posdr composto da bolscevichi e menscevichi) è dunque una mezza verità che può giustificare il luogo comune di tutti coloro che da un secolo minimizzano la scissione del 1903.
Eppure l'opinione di tanti (che Bucchioni riprende) non era condivisa da Lenin. In un testo (spesso più citato per il suo titolo di quanto non sia letto), l'Estremismo, malattia infantile del comunismo (1920) Lenin scrive: «il bolscevismo, come corrente del pensiero politico e come partito politico, esiste dal 1903 (corsivo nostro)» (3).
La verità di Bucchioni è dimezzata: è vero infatti che i bolscevichi erano, formalmente, una frazione di un partito di cui facevano parte anche i menscevichi. Ma, come sottolinea giustamente il dirigente trotskista americano James Cannon in polemica con chi si limitava a fare la stessa constatazione formale che fa Bucchioni, bisogna anche dire l'altra metà della verità e cioè che: «La frazione di Lenin era in realtà un partito», e anche per questo al suo interno (fin dal 1906) si costituirono in varie occasioni tendenze e frazioni (4).

 

In secondo luogo. Negli articoli di Bucchioni ricorre l'affermazione per cui Lenin sarebbe stato convinto che le differenze interne rafforzano il partito.


Non conosco testi dove Lenin affermi ciò. Conosco invece molti testi dove Lenin ribadisce qualcosa di significativamente diverso: che l'elaborazione politica necessita di un confronto e, quando serve, di uno scontro di idee nel partito; che laddove in questo processo emergano differenze, esse devono potersi esprimere secondo le norme del centralismo democratico (avendo la possibilità di diventare maggioranza), cioè non vanno soffocate ma devono esprimersi secondo norme che in ogni caso consentono che il dibattito e le differenze non ostacolino l'azione.
Lenin (ed è qui l'essenziale che mi pare sfugga all'interpretazione di Bucchioni) concepiva il partito rivoluzionario come un organismo di combattimento, un esercito nella guerra di classe. Per questo, come aggiunge Trotsky: «Ovviamente, il contenuto fondamentale della vita di partito non risiede nella discussione ma nella lotta» (5).
Dunque ciò che afferma Bucchioni (che Lenin vedeva nelle differenze qualcosa che «rafforza il partito») non corrisponde alla concezione che Lenin aveva del partito e, se assunta come una generalizzazione, potrebbe indurre a difendere un regime di partito basato su una democrazia senza confini: una idea che appartiene non solo ai menscevichi e agli anarchici ma anche, ad esempio, alla tendenza interna al Partito bolscevico denominata Centralismo Democratico (guidata da Sapronov e Vladimir Smirnov) che già nel 1919-1920 (cioè ben prima della degenerazione staliniana) attaccava la maggioranza bolscevica di Lenin e Trotsky per un presunto «centralismo autoritario», «bonapartismo», ecc.
A differenza della lettura che hanno accreditato sia storici come Pierre Broué sia dirigenti politici come Ernest Mandel, non è possibile trovare né in Lenin né in Trotsky una esaltazione di un partito impegnato in un dibattito permanente: perché questo è in contrasto con la concezione del partito come organismo di combattimento. Al contrario si possono trovare (e ne vedremo tra poco alcune) molte affermazioni di Trotsky contro il partito concepito come «club di discussione», paralizzato e incapace di agire in attesa che la realtà dimostri quale tesi era corretta: è vero che per i marxisti la realtà è il criterio della verità, tuttavia si può sottoporre a prova solo una linea politica per volta, cioè solo la linea politica che, in seguito al dibattito democratico, è approvata a maggioranza e deve essere sostenuta lealmente e attivamente anche da chi non la condivide. Esaurito il dibattito si passa all'azione e il dibattito cessa fino a quando il partito non lo riapre, nei congressi e in altri momenti di verifica che il partito decide.
Frazioni e tendenze sono dunque la normale espressione di un partito in cui le differenze non si risolvono positivamente. Affermare questo, come si capisce, non significa affermare che le differenze «rafforzano il partito» né che l'esistenza in esso di tendenze e frazioni è un fatto positivo. Né, tanto meno, significa concepire il partito come un insieme permanente di frazioni o, peggio ancora (come fanno organizzazioni come il Segretariato Unificato, l'Npa francese, il Psol, eccetera), concepire il partito come l'unione di rivoluzionari e riformisti. Questa ultima concezione in ogni caso non ha nulla a che fare né con Lenin né con Trotsky, che infatti rimarcava: «Un partito può tollerare solo le frazioni che non perseguano obiettivi direttamente contrapposti ai suoi» (6).

 

In terzo luogo. Bucchioni fa confusione quando scrive che le «linee guida» del centralismo democratico «sono contenute nel libro Che fare?».

È un errore frequente ma è comunque un errore. Bisogna infatti ricordare che il Che fare? è scritto da Lenin nel 1902, quando ancora non era prevista la divisione tra bolscevichi e menscevichi (che sarà nel congresso dell'anno dopo, 1903). Bisogna ricordare che il tema centrale del Che fare? non è il regime del partito ma è la polemica con una corrente degli economicisti. Si tratta del gruppo Rabocee Delo (La causa operaia), diretto da Kricevskij e Martynov. Questo gruppo sosteneva la impossibilità per il partito rivoluzionario di elevare la coscienza socialista dell'avanguardia che lotta e per questo teorizzavano che bisognava «abbassare» la politica rivoluzionaria al livello di coscienza delle masse, ridurre il programma ai soli obiettivi immediati e comprensibili all'insieme della classe. Si tratta di un dibattito interessante e attuale, che meriterebbe di essere sviluppato: ma non è il nostro argomento in questo articolo. Qui ci interessa segnalare che nel Che fare? non si trova nemmeno una riga sul tema del centralismo democratico. La stessa espressione «centralismo democratico» non compare nel libro: e non può comparire perché il termine fu coniato tre anni dopo (alla fine del 1905) e non da Lenin (come sostiene Bucchioni) ma dai menscevichi (7).
Una volta rimesse le date storiche al loro posto, è utile precisare che se il nome (centralismo democratico) nasce nel 1905, la cosa (il concetto politico-organizzativo) già esisteva nel secolo precedente. È infatti una concezione che portano nella Prima Internazionale Marx ed Engels, nella battaglia contro Bakunin e il federalismo degli anarchici, quando, dopo la Comune di Parigi (e grazie agli insegnamenti della sua sconfitta) poterono concludere la lunga battaglia di demarcazione del marxismo che avevano combattuto contro tutte le altre correnti nell'Internazionale e «mettere fine all'accordo ingenuo di tutte le frazioni» per cercare di costruire finalmente una Internazionale «puramente comunista» e basata sul marxismo (8). La concezione del partito operaio centralizzato democraticamente, strumento indispensabile per la conquista del potere, è infatti l'asse di tutte le risoluzioni approvate alla Conferenza di Londra (settembre 1871) e al Congresso dell'Aja che, l'anno dopo, stabilì la necessità di una Internazionale centralizzata, basata su una ferrea disciplina, sul rispetto del principio di maggioranza. Su questi elementi avvenne la rottura con gli anarchici che polemizzavano con «l'autoritarismo» di Marx, non solo perché rifiutavano il programma della dittatura del proletariato (una cosa in effetti molto «autoritaria» che si conquista con baionette e cannoni, come ironizzava Engels), ma pure perché respingevano (con una certa coerenza che gli va riconosciuta) anche il partito centralizzato che ne era (ed è ancora oggi) la premessa indispensabile.

 

  1. Lenin sul regime del partito rivoluzionario

Dopo aver fatto alcune necessarie precisazioni storiche, vediamo che il tema della concezione del partito in Lenin e Trotsky inizia ad assumere colori differenti. Proseguiamo.
Non è nel Che fare?, a differenza di quanto scrive Bucchioni, ma è in un altro libro di Lenin che bisogna cercare la polemica sul tema del regime del partito: si tratta di Un passo avanti e due indietro. È un libro del 1904, dove Lenin riassume l'andamento del famoso congresso del 1903 che si concluse con la scissione tra bolscevichi e menscevichi e che fu - ripetiamo quanto affermano Lenin e Cannon, in dissenso con Bucchioni - il vero atto di nascita del Partito bolscevico.
In questo importante libro, che purtroppo è poco conosciuto, trova ampio spazio la polemica in difesa di un regime centralista rigoroso, della disciplina, del principio di maggioranza, della subordinazione della parte al tutto, cioè della sezione locale al centro (e agli organismi eletti dal congresso nazionale), del singolo militante al partito nel suo insieme, della minoranza alla maggioranza.
Lenin è implacabile contro la «mentalità anarchica e individualista» tipica dei piccolo-borghesi: gli operai, afferma, non hanno paura della disciplina e dell'organizzazione. A chi lo accusa di concepire il partito «come una fabbrica con un direttore, il Comitato Centrale», Lenin risponde «la fabbrica, che ad alcuni sembra uno spauracchio, rappresenta la forma superiore di cooperazione capitalistica che ha unificato e disciplinato il proletariato, che gli ha insegnato a organizzarsi». E continua: ad alcuni «l'organizzazione del partito appare come una "fabbrica" mostruosa; la sottomissione della parte al tutto e della minoranza alla maggioranza appare come un "vassallaggio"».
Secondo Lenin in ogni partito «l'opportunismo (...) si manifesta (...) nelle medesime tendenze, nelle identiche accuse e, molto spesso, con le medesime parole» e per questo riappare «il medesimo conflitto tra autonomismo e centralismo, democrazia e "burocratismo", tra la tendenza a indebolire e la tendenza a rafforzare il carattere rigoroso dell'organizzazione e della disciplina (...)» (9).
E prosegue così, per pagine e pagine: non possiamo riportare tutto il libro ma ne consigliamo la lettura a tutti i compagni che sono interessati ad approfondire il tema del regime nel partito.
Chiaramente la disciplina di cui parla Lenin è «ferrea» ma non è «cieca»: perché non è passiva, è assunta da chi, consapevolmente, decide di dedicarsi alla causa rivoluzionaria e il partito è fatto di teste pensanti, e un'attitudine alla critica e all'autocritica è una delle principali doti di ogni rivoluzionario.
I concetti di questo libro del 1904 (in cui ancora non compare l'espressione «centralismo democratico» ma è ben illustrato il concetto) troveranno conferma nell'esperienza vittoriosa della rivoluzione russa. Per questo scrivendo nel 1920 l'Estremismo, malattia infantile del comunismo Lenin titolerà il secondo capitolo: «Una delle condizioni fondamentali per la vittoria dei bolscevichi» per poi spiegare che questa «condizione fondamentale» fu «una disciplina severissima, realmente ferrea» (10).

 

  1. Centralismo e «disciplina severissima, realmente ferrea»

Una vecchia leggenda (molto amata da tutti gli opportunisti) vuole che la «disciplina severissima, realmente ferrea» di cui parla Lenin fosse in uso tra i bolscevichi solo perché erano un partito che si batteva nella illegalità. Si tratterebbe così di un elemento legato a una realtà specifica.
Altri ricordano la polemica di Trotsky, nei primi anni del secolo, contro le posizioni di Lenin, posizioni che Trotsky definiva «iper-centraliste», mentre accusava Lenin di «robespierrismo».
Altri ancora prendono testi in cui Trotsky polemizza contro la deformazione che lo stalinismo fece del centralismo, cioè testi scritti contro lo snaturamento controrivoluzionario del centralismo democratico, ed estraendo questi testi da quella battaglia, cercano di presentare ogni elemento di centralismo e di disciplina come un elemento «burocratico», sottraendo al binomio centralismo-democratico la prima parola con la stessa facilità con cui si levano le pantofole prima di andare a dormire.
È perlomeno dai tempi di Bakunin (cioè un secolo e mezzo fa) che, con piccole modifiche, si ripete sempre lo stesso ritornello. Come dicono i francesi: «On connait la chanson!», è una canzone che conosciamo. Ma per quanto vecchia rimane una canzone stonata, che non si accorda col leninismo.
Vediamo insieme questi argomenti ricordando i fatti storici.La concezione leninista del centralismo democratico non era concepita solo per partiti nella illegalità (anzi, era più facilmente applicabile a partiti non costretti alla clandestinità). I fondamenti del centralismo democratico furono per questo codificati dall'Internazionale Comunista nelle tesi valide per tutti i partiti comunisti: «Sulla struttura organizzativa dei partiti comunisti» (Terzo Congresso, 1921) (11).
Chiaramente la struttura e i metodi di un partito rivoluzionario non sono un'astrazione: non prescindono dalle condizioni concrete in cui quel determinato partito si sta costruendo. Tuttavia vi sono alcuni principi che sono validi in ogni circostanza.
Rispetto a Trotsky bisognerebbe ricordare che fece una profonda autocritica per quanto riguarda le sue giovanili accuse a quello che all'epoca gli sembrava «l'ipercentralismo» di Lenin. Ad esempio in La mia vita ammette che non aveva capito come «un centralismo rigoroso e severo sia necessario a un partito rivoluzionario che vuole dirigere contro la vecchia società milioni di uomini» (12).
Per quanto riguarda, infine, il tentativo di prendere gli argomenti che Trotsky usava negli anni Venti e Trenta contro il centralismo burocratico e di usarli contro ogni centralismo, in contesti completamente diversi, cercando di presentare Trotsky come il sostenitore di una democrazia senza regole e senza centralismo, bisogna ricordare che proprio mentre conduceva una battaglia mortale contro i metodi (gemelli di quelli del fascismo) usati dalla burocrazia stalinista, Trotsky partecipava alla costruzione di un'Internazionale e di partiti basati sul centralismo democratico autentico, cioè su «una disciplina severissima, realmente ferrea», per usare le parole di Lenin.
E non è un caso se il documento di fondazione del Swp degli Stati Uniti, costituito nel 1938 sotto la direzione di Cannon e con la stretta collaborazione di Trotsky, insiste ogni tre righe sulla necessità di combinare il dibattito e la democrazia con quella «severa disciplina» e quel centralismo senza il quale non vi è partito rivoluzionario. È interessante notare che in quel Congresso una minoranza (diretta da Burnham e Draper) avanzò a quella concezione (profondamente condivisa da Trotsky) accuse di «burocratismo», facendo critiche democraticistiche.
Possiamo leggere nel documento fondativo del 1938: «Ogni discussione interna del partito deve essere organizzata dal punto di vista secondo il quale il partito non è un club di discussione con dibattiti interminabili su ogni e qualsiasi questione e in ogni momento, in cui non si arriva mai ad assumere decisioni, paralizzando così l'organizzazione; al contrario, il partito deve essere concepito come un partito disciplinato per l'azione rivoluzionaria» (13).
Non aiuta a chiarire le vicende storiche nemmeno il richiamo che fa Bucchioni quando (nel secondo dei suoi quattro articoli su questo tema) ricorda come nel Partito bolscevico nel 1917 il dibattito interno spesso era in varie occasioni pubblico. Ancora una volta Bucchioni prende un elemento vero della realtà e, isolandolo dal suo contesto, lo presenta come una sorta di regola generale. Ma in questo caso dimentica che se inevitabilmente, in un partito di decine di migliaia, una parte del dibattito diventa «pubblico», questo non necessariamente deve valere per partiti di qualche centinaio o di qualche migliaio (come sono oggi tutti i partiti rivoluzionari). Questa semplice constatazione che a qualcuno potrebbe sembrare «burocratica» non è mia: la fa Trotsky in risposta al medesimo argomento di Bucchioni usato in quel caso da Schatman. In una lettera (del marzo 1940) al dirigente del Swp Farrell Dobbs, Trotsky scrive: «Schatman cerca o, per meglio dire, inventa precedenti storici: l'opposizione aveva, nel Partito bolscevico, i suoi organi di stampa, ecc. Dimentica però che il partito, in quel momento, aveva centinaia di migliaia di militanti, che la discussione doveva giungere a ciascuno di essi e convincerli. In queste condizioni non era possibile restringere la discussione al solo circuito interno (...)» (14).
Tornando all'esempio del Swp, quando la sezione statunitense della Quarta Internazionale si divise in due frazioni sulla questione del carattere dello Stato in Russia, una maggioranza e una minoranza più o meno dello stesso peso numerico, per cercare di evitare la rottura in due metà del partito Trotsky insistette sulla necessità di ampliare il dibattito ammettendo misure eccezionali (tra cui dei bollettini interni di discussione in periodo non congressuale o anche la permanenza di una frazione interna dopo la conclusione del congresso). Ma si trattava appunto (e questo lo ricorda anche Bucchioni) di una situazione eccezionale perché il partito era minacciato da una scissione in due parti quasi pari (che dopo poco in effetti si concretizzò): in ogni caso, anche in quella situazione il partito continuò a funzionare secondo le norme di un centralismo democratico fondato sulla «disciplina severissima, realmente ferrea». E Trotsky, in risposta alla minoranza del Swp che attaccava la maggioranza citando (con un paragone ingiustificato) le modalità dello stalinismo per sostenere la necessità di ampliare senza misura la democrazia, staccandola dal centralismo, precisava: «Le garanzie giuridiche permanenti per la minoranza non sono, con tutta certezza, eredità dell'esperienza bolscevica. (...) La struttura organizzativa dell'avanguardia proletaria deve subordinarsi alle esigenze positive della lotta rivoluzionaria, e non alle garanzie negative della sua degenerazione» (15).
Trotsky torna su questo tema a più riprese. In una lettera a Burnham, dirigente della minoranza del Swp, che invocava «più democrazia» nel partito, risponde: «Lei cerca un tipo di democrazia interna ideale, che assicuri a tutti, in ogni circostanza, la possibilità di fare e dire ciò che gli passa per la testa e che vaccini il partito contro la degenerazione burocratica. Lei ignora, tuttavia, il fatto che il partito non è uno palcoscenico per l'affermazione personale ma piuttosto lo strumento per la rivoluzione proletaria; e che solo una rivoluzione vittoriosa è capace di evitare la degenerazione non solo del partito, ma anche del proletariato nel suo insieme e della civiltà moderna in generale» (16).
E ancora: «È vero che, per giustificare la sua dittatura, la burocrazia sovietica ha utilizzato i principi del centralismo bolscevico, però per farlo li ha trasformati nell'esatto contrario di ciò che erano. Ma questo non discredita, in definitiva, i metodi del bolscevismo. Per lunghi anni, Lenin educò il partito alla disciplina proletaria e al centralismo più severo. Nel farlo, dovette subire infinite volte gli attacchi delle combriccole e delle frazioni piccolo-borghesi. Il centralismo bolscevico è un fattore progressivo, e assicurò il trionfo della rivoluzione. Non è difficile comprendere che la lotta dell'attuale opposizione del Socialist Workers Party non ha nulla in comune con la lotta dell'opposizione russa del 1923 contro la casta privilegiata dei burocrati; al contrario, ha molto in comune con la lotta dei menscevichi contro il centralismo bolscevico» (17).

 

Conclusioni

In conclusione, il centralismo democratico non è una formula magica ma solo la modalità che i rivoluzionari (dai tempi di Marx, quando ancora l'espressione non esisteva) hanno trovato per organizzare in forma efficace un partito che lotta per conquistare il potere per via rivoluzionaria. Il centralismo democratico per Lenin, Trotsky e Cannon implicava una dialettica tra i due termini e ciò significa: la più ampia discussione possibile in un determinato momento per la elaborazione delle scelte, con piena parità di diritti tra maggioranza e minoranza; una severissima disciplina nell'applicazione delle scelte e di conseguenza il principio di maggioranza (la minoranza deve sottomettersi alle scelte decise democraticamente e deve applicarle lealmente); elezione e costante controllo del partito sui suoi organismi dirigenti; circolazione interna dell'informazione per tutti i militanti; congressi frequenti come massimo momento di direzione.
Alla concezione leninista del partito sono estranei tanto il centralismo senza democrazia (il centralismo burocratico, tipico dello stalinismo), così come la democrazia senza centralismo (tipico dell'anarchismo, del menscevismo, eccetera). Questi due estremi, che talvolta si convertono rapidamente uno nell'altro, non hanno nulla in comune con il trotskismo e con il regime tipico del bolscevismo, cioè col centralismo democratico.
Siccome la storia dei rivoluzionari è per noi una fonte costante di insegnamenti, quando si torna a studiarla è importante ricostruire la verità nella sua complessità, ricordando che le mezze verità (anche quando sono dette in assoluta onestà) sono pericolose perché, come diceva mi pare Oscar Wilde, si rischia di trovarsi in mano la metà sbagliata...
Non si può separare la democrazia dal centralismo. Questa opinione è condivisa oltre che da chi scrive questo articolo anche da Trotsky a cui lascio la parola per concludere perché, come spesso accade, è inutile parafrasare il suo pensiero che risulta chiarissimo.
Scrive Trotsky nel 1933: «Alcuni membri della nostra organizzazione definiscono come 'stalinismo' qualsiasi richiamo alla disciplina, qualsiasi repressione. In questo modo dimostrano soltanto di essere tanto lontani dal capire cosa fu lo stalinismo così come dal capire lo spirito che deve guidare una organizzazione veramente rivoluzionaria. La storia del bolscevismo fu fin dai suoi primi passi la storia dell'educazione dell'organizzazione a una disciplina di ferro. Originariamente si chiamavano "duri" i bolscevichi e "molli" i menscevichi, perché i primi erano a favore di una dura disciplina rivoluzionaria mentre i secondi sostituivano la disciplina con l'indulgenza, il lassismo e l'ambiguità. I metodi organizzativi del menscevismo sono altrettanto nemici di un'organizzazione proletaria quanto il burocratismo stalinista. (...) I bolscevico-leninisti rifiutano la democrazia senza centralismo come un'espressione di carattere piccolo-borghese. Per essere capaci di affrontare i nuovi compiti è necessario purificare le organizzazioni bolscevico-leniniste dei metodi anarchici e menscevichi» (18).

 

 

Note

(1) I nove articoli sono questi:

- quattro articoli di Enio Bucchioni:

«A propósito do regime interno dos bolcheviques antes de fevereiro de 1917» - blogconvergencia.org/?p=4096; «A propósito do regime interno dos bolcheviques entre fevereiro e outubro de 1917» - blogconvergencia.org/?p=4300; «A propósito do regime interno dos bolcheviques após Outubro: as frações públicas» - blogconvergencia.org/?p=4459; «A propósito do regime interno dos bolcheviques: a visão de Trotsky» - blogconvergencia.org/?p=4496

- tre articoli di Euclides de Agrela: «Sucessão de gerações e burocratização do partido em Leon Trotsky» - blogconvergencia.org/?p=5749; «Composição social e burocratização do partido em Leon Trotsky» - blogconvergencia.org/?p=5803; «Agrupamentos, formações fracionais e burocratização do partido em Leon Trotsky» - blogconvergencia.org/?p=5842;

- due articoli di Henrique Canary: «Centralismo versus democracia? Reflexões sobre o regime leninista de partido» - blogconvergencia.org/?p=4453; «Os dirigentes e suas grosserias» - blogconvergencia.org/?p=6044.

(2) E.H. Carr, Storia della rivoluzione russa (a pagina 51 dell'edizione Einaudi, 1964).

(3) V.I. Lenin, L'Estremismo, malattia infantile del comunismo (capitolo II).

(4) James P. Cannon, «Factional struggle and Party leadership» (il testo non esiste in lingua italiana, la traduzione è nostra). Si tratta di un discorso tenuto da Cannon nel novembre 1953 in una riunione del Swp (sezione statunitense della Quarta Internazionale). In quelle settimane si era conclusa la lotta di frazione all'interno del Swp con la minoranza di Cochran e Clarke (legata internazionalmente a Michel Pablo). Questa frazione sosteneva una versione deformata del centralismo democratico, rifiutando la disciplina e il principio di maggioranza e pretendendo di imporre una specie di diritto di veto della minoranza sulle decisioni assunte democraticamente dagli organismi dirigenti del partito.

Il testo di Cannon si trova in lingua originale a questo link:

www.marxists.org/history/etol/document/swp-us/education/1966-06-jun-Defending-Rev-Party-its-Perspective-EfS.pdf

(5) Lev Trotsky, «Las fracciones y la Cuarta Internacional» (1935), si può leggere in lingua spagnola a questo link www.archivoleontrotsky.org/download.php?mfn=19664 (la traduzione è nostra).

(6) Trotsky, «Las fracciones y la Cuarta Internacional» (1935), nostra traduzione in italiano.

(7) Vari storici, tra cui Lars T. Lih (autore di varie monografie su Lenin e il bolscevismo), hanno dimostrato che l'espressione «centralismo democratico» fu usata per la prima volta dai menscevichi nella loro conferenza di Pietrogrado del novembre 1905. Questo è quanto scrive anche Vladimir Nevskij nella sua Storia del Partito bolscevico (1924; edizione Pantarei, 2008). Nevskij era il direttore dell'Istituto per la Storia del Partito bolscevico ai tempi di Lenin. Fu ammazzato dagli stalinisti negli anni Trenta.

(8) Lettera di Engels a Sorge, 12 settembre 1874, in Marx ed Engels, Lettere 1874-1879, (edizione Lotta Comunista, 2006, p. 35).

(9) V.I. Lenin, Un passo avanti e due indietro.

(10) V.I. Lenin, L'estremismo, malattia infantile del comunismo.

(11) «Sulla struttura organizzativa dei partiti comunisti» (Terzo Congresso dell'Internazionale Comunista, 1921) (si trova nel primo dei sei volumi curati da Aldo Agosti che raccolgono i principali testi dell'Internazionale Comunista, col titolo: La Terza Internazionale. Storia documentaria, Editori Riuniti, 1974).

(12) L. Trotsky, La mia vita (a pagina 175 dell'edizione Mondadori, 1976).

(13) «The internal situation and the character of the party». In The founding of the Swp. Minutes and resolutions, 1938-1939 (Pathfinder Press, 1982). La traduzione del brano dall'inglese è nostra.

(14) Lettera di Trotsky (del marzo 1940) al dirigente del Swp Farrell Dobbs (si trova nella raccolta di testi intitolata In difesa del marxismo).

(15) Lettera di Trotsky (dicembre 1939) alla Maggioranza del Comitato Nazionale del Swp (in In difesa del marxismo).

(16) Lettera di Trotsky a Burnham (gennaio 1940) (in In difesa del marxismo).

(17) L. Trotsky, «Da un taglio al pericolo della cancrena» (gennaio 1940) (in In difesa del marxismo).

(18) L. Trotsky, «Hay que poner punto final» (18 settembre 1933), traduzione nostra.

 

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